nulla è più importante di ciò che sembra insignificante

PROVE DI SOPRAFFAZIONE

C’è un momento, nella storia, in cui il silenzio diventa complicità.

Un punto esatto, spesso ignorato, in cui la cronaca non è più soltanto cronaca, ma un giudizio morale sul nostro tempo. Ogni giorno che passa, ogni notizia che arriva, ogni immagine che scorre sui nostri schermi, ci avvicina a quel punto.

Ci stiamo abituando. E questo è l’orrore più sottile.

Ci abituiamo a vedere la forza che schiaccia, la potenza che occupa, il privilegio che cancella l’umanità dell’altro.

Ci abituiamo a sentire parole che disumanizzano, piani che spianano, progetti che trasformano il dolore in occasione.

Ci abituiamo a vedere bambini ridotti a numeri, città a zone da riconvertire, popoli interi trattati come ostacoli da rimuovere.

Le chiamiamo strategie.

Le chiamiamo geopolitica.

Le chiamiamo piani di sviluppo.

Ma sono, più semplicemente, prove di sopraffazione.

È l’esercizio lucido e calcolato di un potere che non si accontenta di vincere: deve umiliare, riscrivere, cancellare.

Un potere che non costruisce, ma occupa. Che non ascolta, ma impone.

Che trasforma la tragedia in business, la distruzione in opportunità, l’ingiustizia in destinazione turistica.

L’ultima notizia – tra le tante – parla di un luogo svuotato, spianato, devastato da decenni, da “rilanciare” come polo del lusso e dell’hi-tech. Una sorta di “riviera” sul sangue, progettata per chi può permettersi di dimenticare.

Ma chi dimentica, oggi, tradisce.

E allora viene da chiedersi:

Dov’è l’indignazione?

Dov’è il grido collettivo che dice “basta”, che dice “no” senza condizioni, senza paura, senza calcolo?

Dov’è il mondo che sa ancora riconoscere la violenza, anche quando si presenta in giacca e cravatta, col lessico levigato dei vincenti?

Il problema non è solo il potere che devasta.

Il problema siamo anche noi.

Noi che osserviamo, commentiamo, valutiamo – ma non ci opponiamo.

Noi che abbiamo fatto dell’equilibrismo la nostra etica, del relativismo la nostra fuga.

Noi che scegliamo la neutralità per evitare il disagio.

Ma la dignità non è una variabile negoziabile.

La giustizia non è una narrazione alternativa.

La libertà non può diventare un optional concesso in base al reddito, alla posizione geografica o alla convenienza politica.

Viviamo un tempo in cui la sopraffazione non ha più bisogno di mimetizzarsi.

Non si nasconde sotto le bandiere, né si giustifica più con la diplomazia.

Si mostra per quella che è: brutale, arrogante, perfettamente integrata nel sistema. E ciò che sgomenta, oggi, non è la sua brutalità. È la nostra passività.

Non c’è indignazione che duri più di un ciclo di notizie.

Non c’è memoria che resista a un algoritmo.

Non c’è tragedia che non venga prima o poi metabolizzata, normalizzata, digerita.

Come se tutto fosse inevitabile.

Come se nulla ci appartenesse davvero.

E intanto, nei palazzi ovattati, si disegnano mappe, si ridisegnano territori, si cancellano identità, culture, storie.

Si fanno piani – con nomi rassicuranti, ammiccanti – per trasformare la sofferenza in reddito, la miseria in margine operativo.

Il progetto di una “riviera” nel cuore di una tragedia umanitaria è forse l’esempio più grottesco, più simbolico, più mostruosamente perfetto della direzione che ha preso il mondo:

Sradicare gli abitanti per far posto ai turisti.

Sostituire le cicatrici con lustrini.

Offrire champagne dove prima c’era sangue.

È questa la nuova estetica della sopraffazione: elegante, ipertecnologica, ben impaginata.

Un’ingiustizia 4.0, distribuita in PDF, benedetta dalle multinazionali, raccontata dagli influencer.

E noi?

Noi, popolo del mondo, che facciamo?

Scrolliamo. Condividiamo. Commentiamo. Poi passiamo oltre.

Siamo diventati consumatori di tragedie.

Collezionisti di disastri.

Analisti da divano, con opinioni pronte su tutto, ma senza il coraggio di alzarci.

Eppure, basterebbe un cambio di sguardo.

Per ricordarci che non siamo nati per assistere. Che anche il nostro silenzio ha un peso. E delle conseguenze.

Il rischio più grande, oggi, non è l’odio. È la rassegnazione.

È la convinzione che il mondo sia troppo compromesso per essere cambiato.

È il veleno del “non posso farci nulla”.

Ma è proprio questo che nutre la sopraffazione:

l’assenza di reazione,

l’assenza di solidarietà,

l’assenza di una contro-narrazione forte, visibile, necessaria.

La cultura può essere una risposta.

Non perché basti da sola, ma perché può risvegliare ciò che resta sopito: l’empatia, la memoria, la coscienza.

L’arte, la scrittura, la musica, il pensiero critico. Non come ornamento, ma come resistenza. Come dissenso. Come sveglia.

Perché la cultura vera non è mai neutra. Non è mai comoda. Non è mai innocua.

È sovversiva. È scomoda. È politica – nel senso più alto, più umano del termine.

Leggere un libro può diventare un atto di ribellione.

Osservare un quadro, ascoltare una voce fuori dal coro, può diventare una presa di posizione.

E noi abbiamo bisogno di questo: di sguardi non complici.

Di coscienze vigili.

Di parole nuove.

Di azioni, anche piccole, che siano dichiarazioni di umanità.

Non possiamo più permetterci la tiepidezza.

Non possiamo più permetterci la prudenza.

Non possiamo più permetterci l’illusione dell’equidistanza.

Ciò che sta accadendo nel mondo è una prova generale di disumanizzazione, ed è una prova che ci riguarda tutti.

Un giorno, qualcuno ci chiederà:

“Dov’eri, mentre accadeva tutto questo?”

Non basterà dire che non sapevamo.

Le immagini c’erano. Le storie c’erano. I numeri c’erano. I volti c’erano.

E tutti ci guardavano.

È il momento di scegliere.

E non tra due bandiere.

Tra ciò che è umano e ciò che non lo è più.

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