Viviamo in un’epoca in cui la parola “filantropia” ha perso densità, consumata dal cinismo e dall’interesse personale. Si parla ancora di cultura, di arte, persino di educazione, ma lo si fa con leggerezza, spesso come accessorio estetico, come ornamento di un’identità aziendale o personale da vendere. Manca – e si avverte con dolore – un’autentica tensione ideale verso il sostegno disinteressato del pensiero, della ricerca, della bellezza. Dove sono coloro che mettevano la propria vita, e non solo il proprio denaro, al servizio di ciò che non produce ritorni immediati, ma lascia tracce eterne?
Non si sostiene più uno scrittore perché ha qualcosa da dire, ma perché ha un buon engagement su Instagram. Non si finanzia più una stagione musicale perché contribuisce alla crescita spirituale di una comunità, ma perché permette di “far vedere che ci siamo”. Le fondazioni culturali sono diventate vetrine, gli sponsor cercano il proprio logo più della propria coscienza. L’arte è un mezzo, non un fine. E così la filantropia ha perso anima, trasformandosi in strategia.
Ma il problema è più profondo, e riguarda la società intera. Manca un interesse reale, concreto, vivo per lo studio, per la musica, per le arti. Si è perduto – o forse rinnegato – il piacere della contemplazione, del silenzio attivo, dell’ascolto profondo. Si corre, si scrolla, si urla. Ci si espone, continuamente, convinti che solo ciò che si mostra esista. Ma la cultura, quella vera, ha bisogno di silenzio. Di solitudine. Di fatica. Di maestri. Di tempo.
Al contrario, oggi tutti vogliono parlare, nessuno vuole ascoltare. Tutti vogliono insegnare, nessuno vuole imparare. C’è una smania di protagonismo diffuso che si traduce in un’esposizione narcisistica e vuota. La preparazione non conta più, la qualità è diventata un optional, la competenza un fastidio. La cultura è diventata intrattenimento, e l’intrattenimento ha divorato ogni spazio di riflessione.
La storia ci insegna che la cultura, per crescere e resistere, ha sempre avuto bisogno di alleati. Di anime generose che sapessero restare nell’ombra per permettere ad altri di brillare. Pensiamo a Cosimo de’ Medici, a Lorenzo Il Magnifico: non si limitavano a finanziare gli artisti, li circondavano di fiducia, di stimoli, di libertà. È grazie a quella visione che abbiamo Botticelli, Michelangelo, Leon Battista Alberti.
Nel Novecento, ci sono stati gesti altrettanto luminosi. Peggy Guggenheim, musa e rifugio dell’arte moderna, salvò artisti dalla guerra e dalla fame. Paul Durand-Ruel sostenne gli impressionisti quando il mercato li disprezzava. Pannonica de Koenigswarter, baronessa Rothschild, soprannominata “Nica”, che lasciò l’Europa aristocratica per diventare mecenate e custode dei più grandi jazzisti americani.
E oggi? Oggi chi ha i mezzi – economici, intellettuali, simbolici – sembra raramente disposto a investirli in qualcosa che non generi profitto o immagine. I pochi che lo fanno, lo fanno in silenzio, quasi con pudore, e sono eccezioni in un paesaggio dominato da smania di protagonismo e superficialità. La cultura viene sostenuta solo se “funziona”, se è facile, se è presentabile. Non c’è più desiderio di elevazione, ma solo di esposizione.
Parlare sembra diventato un obbligo. Ascoltare, un’arte perduta. Si è persa la sensibilità all’ascolto, alla contemplazione, alla partecipazione filosofica alla vita. Non si studia più per comprensione, ma per apparenza. Non si partecipa alla cultura per fame di senso, ma per esserci. E così si scrive, si suona, si dipinge, si espone – senza profondità, senza sacrificio, senza silenzio. La competenza è diventata un intralcio, la qualità un vezzo, la preparazione un dettaglio.
In questa società dell’istantaneo, dove anche l’arte è trattata come un contenuto da scrollare, non c’è più spazio per ciò che richiede tempo, solitudine, dubbio. Non si sostiene più un giovane musicista per ciò che potrebbe diventare, ma per i numeri che già produce. Non si dà fiducia a un pensatore se non ha un pubblico. L’arte è diventata un investimento a breve termine. Ma la cultura vera – quella che salva, che cambia, che eleva – non si piega a questa logica. Ha bisogno di spazio, di cura, di respiro.
E allora ci si chiede, con un senso crescente di smarrimento: cosa resterà di tutto questo? Cosa resterà se nessuno protegge più la fragilità dell’arte, se nessuno difende il diritto alla ricerca, all’approfondimento, alla disobbedienza creativa? Cosa resterà se continuiamo a sacrificare l’intelligenza e la bellezza sull’altare del consenso?
Forse nulla, se non il rumore.
Ed è per questo che dobbiamo anche imparare a disperarci. Perché questa assenza – di mecenati, di ascolto, di visione – non è un dettaglio. È una frattura profonda, un cedimento strutturale della nostra civiltà. Ma forse, ricordando chi ha davvero lasciato un segno – da Lorenzo il Magnifico a Nica de Koenigswarter – possiamo ancora ritrovare il coraggio di credere in ciò che non serve a vendere, ma a vivere. E forse, da qualche parte, qualcuno ascolterà.
Forse non possiamo più aspettare i grandi mecenati. Forse dobbiamo imparare a esserlo, ciascuno a modo suo. Anche un gesto piccolo, se è guidato dalla visione, può cambiare il destino di un’idea.
IL SILENZIO DEI MECENATI
Viviamo in un’epoca in cui la parola “filantropia” ha perso densità, consumata dal cinismo e dall’interesse personale. Si parla ancora di cultura, di arte, persino di educazione, ma lo si fa con leggerezza, spesso come accessorio estetico, come ornamento di un’identità aziendale o personale da vendere. Manca – e si avverte con dolore – un’autentica tensione ideale verso il sostegno disinteressato del pensiero, della ricerca, della bellezza. Dove sono coloro che mettevano la propria vita, e non solo il proprio denaro, al servizio di ciò che non produce ritorni immediati, ma lascia tracce eterne?
Non si sostiene più uno scrittore perché ha qualcosa da dire, ma perché ha un buon engagement su Instagram. Non si finanzia più una stagione musicale perché contribuisce alla crescita spirituale di una comunità, ma perché permette di “far vedere che ci siamo”. Le fondazioni culturali sono diventate vetrine, gli sponsor cercano il proprio logo più della propria coscienza. L’arte è un mezzo, non un fine. E così la filantropia ha perso anima, trasformandosi in strategia.
Ma il problema è più profondo, e riguarda la società intera. Manca un interesse reale, concreto, vivo per lo studio, per la musica, per le arti. Si è perduto – o forse rinnegato – il piacere della contemplazione, del silenzio attivo, dell’ascolto profondo. Si corre, si scrolla, si urla. Ci si espone, continuamente, convinti che solo ciò che si mostra esista. Ma la cultura, quella vera, ha bisogno di silenzio. Di solitudine. Di fatica. Di maestri. Di tempo.
Al contrario, oggi tutti vogliono parlare, nessuno vuole ascoltare. Tutti vogliono insegnare, nessuno vuole imparare. C’è una smania di protagonismo diffuso che si traduce in un’esposizione narcisistica e vuota. La preparazione non conta più, la qualità è diventata un optional, la competenza un fastidio. La cultura è diventata intrattenimento, e l’intrattenimento ha divorato ogni spazio di riflessione.
La storia ci insegna che la cultura, per crescere e resistere, ha sempre avuto bisogno di alleati. Di anime generose che sapessero restare nell’ombra per permettere ad altri di brillare. Pensiamo a Cosimo de’ Medici, a Lorenzo Il Magnifico: non si limitavano a finanziare gli artisti, li circondavano di fiducia, di stimoli, di libertà. È grazie a quella visione che abbiamo Botticelli, Michelangelo, Leon Battista Alberti.
Nel Novecento, ci sono stati gesti altrettanto luminosi. Peggy Guggenheim, musa e rifugio dell’arte moderna, salvò artisti dalla guerra e dalla fame. Paul Durand-Ruel sostenne gli impressionisti quando il mercato li disprezzava. Pannonica de Koenigswarter, baronessa Rothschild, soprannominata “Nica”, che lasciò l’Europa aristocratica per diventare mecenate e custode dei più grandi jazzisti americani.
E oggi? Oggi chi ha i mezzi – economici, intellettuali, simbolici – sembra raramente disposto a investirli in qualcosa che non generi profitto o immagine. I pochi che lo fanno, lo fanno in silenzio, quasi con pudore, e sono eccezioni in un paesaggio dominato da smania di protagonismo e superficialità. La cultura viene sostenuta solo se “funziona”, se è facile, se è presentabile. Non c’è più desiderio di elevazione, ma solo di esposizione.
Parlare sembra diventato un obbligo. Ascoltare, un’arte perduta. Si è persa la sensibilità all’ascolto, alla contemplazione, alla partecipazione filosofica alla vita. Non si studia più per comprensione, ma per apparenza. Non si partecipa alla cultura per fame di senso, ma per esserci. E così si scrive, si suona, si dipinge, si espone – senza profondità, senza sacrificio, senza silenzio. La competenza è diventata un intralcio, la qualità un vezzo, la preparazione un dettaglio.
In questa società dell’istantaneo, dove anche l’arte è trattata come un contenuto da scrollare, non c’è più spazio per ciò che richiede tempo, solitudine, dubbio. Non si sostiene più un giovane musicista per ciò che potrebbe diventare, ma per i numeri che già produce. Non si dà fiducia a un pensatore se non ha un pubblico. L’arte è diventata un investimento a breve termine. Ma la cultura vera – quella che salva, che cambia, che eleva – non si piega a questa logica. Ha bisogno di spazio, di cura, di respiro.
E allora ci si chiede, con un senso crescente di smarrimento: cosa resterà di tutto questo? Cosa resterà se nessuno protegge più la fragilità dell’arte, se nessuno difende il diritto alla ricerca, all’approfondimento, alla disobbedienza creativa? Cosa resterà se continuiamo a sacrificare l’intelligenza e la bellezza sull’altare del consenso?
Forse nulla, se non il rumore.
Ed è per questo che dobbiamo anche imparare a disperarci. Perché questa assenza – di mecenati, di ascolto, di visione – non è un dettaglio. È una frattura profonda, un cedimento strutturale della nostra civiltà. Ma forse, ricordando chi ha davvero lasciato un segno – da Lorenzo il Magnifico a Nica de Koenigswarter – possiamo ancora ritrovare il coraggio di credere in ciò che non serve a vendere, ma a vivere. E forse, da qualche parte, qualcuno ascolterà.
Forse non possiamo più aspettare i grandi mecenati. Forse dobbiamo imparare a esserlo, ciascuno a modo suo. Anche un gesto piccolo, se è guidato dalla visione, può cambiare il destino di un’idea.
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