Ornette Coleman e la tromba senza valvole
Nel jazz, c’è chi cerca la perfezione. E poi c’è Ornette Coleman, che cercava solo la verità.
Per lui, la perfezione era un concetto sospetto. Troppo vincolante, troppo simile all’obbedienza. La musica, secondo Ornette, doveva liberarsi dalle regole per poter dire qualcosa di reale. Ecco perché ha rivoluzionato il linguaggio del jazz, trasformandolo in qualcosa di fluido, imprevedibile, spesso indecifrabile. Ma mai falso.
E quando un giorno entrò in un negozio e comprò una tromba rotta, con due valvole mancanti, non fu per errore. Fu un atto perfettamente coerente con la sua poetica.
Era il 1966. Ornette era già conosciuto come il padre del free jazz, ma il suo percorso artistico stava prendendo nuove direzioni. Dopo aver fatto esplodere le convenzioni armoniche con The Shape of Jazz to Come e Free Jazz: A Collective Improvisation, iniziava a esplorare altri strumenti, altri suoni, altri mondi.
Non si accontentava più del sax alto. Aveva cominciato a suonare il violino, senza aver mai studiato né classica né jazz. Le sue esecuzioni erano grezze, viscerali, ma dotate di una logica interna che sfidava l’ascoltatore. Non suonava “bene”. Suonava come sentiva.
E poi, un giorno, si presentò con una tromba. Una tromba vecchia, arrugginita, probabilmente da mercatino dell’usato. Il dettaglio più sorprendente? Mancavano due valvole su tre.
Chiunque altro avrebbe pensato: è inutilizzabile. Ma non Ornette. Quando gli chiesero come intendesse suonarla, rispose con calma assoluta:
“Suono solo le note che lo strumento vuole.”
Quella frase è diventata leggenda. Una battuta da cabaret per alcuni, un mantra per altri. Perché Ornette Coleman non stava scherzando. Credeva davvero che lo strumento avesse una sua volontà, una sua personalità, e che il compito del musicista non fosse domarlo, ma ascoltarlo e dialogarci.
Di lì a poco, entrò in studio. Portò con sé il sax, il violino e quella tromba mutilata. Il risultato fu The Empty Foxhole (1966), uno degli album più discussi – e fraintesi – della sua carriera.
Il disco era un trio: Ornette ai tre strumenti, Charlie Haden al contrabbasso e alla batteria… Denardo Coleman, suo figlio, di soli dieci anni.
Sì, dieci anni.
L’album fu un terremoto. La critica si divise. C’era chi gridava allo scandalo, chi parlava di “puro dadaismo sonoro”, chi invece intravedeva un nuovo livello di libertà creativa.
E poi c’erano i suoni della tromba. Note spezzate, frasi sconnesse, squilli improvvisi e stonati. Un ascoltatore disattento potrebbe scambiarli per errori. Ma nell’universo di Ornette, non c’era errore, solo esplorazione. La tromba parlava un’altra lingua, e lui non cercava di correggerla. La lasciava parlare.
C’era qualcosa di profondamente poetico in tutto questo. Una tromba non intera, un bambino alla batteria, un sassofonista che non cercava la bellezza ma l’autenticità. Era come se Ornette avesse deciso di spogliarsi di ogni artificio e dire:
“Questo è quello che sono. Questo è quello che sento. Prendilo o lascialo.”
Charlie Haden, che era con lui in studio, raccontò anni dopo: “Ornette non suonava per intrattenere. Suonava per cambiare qualcosa. Ogni nota che usciva da lui era come una frase di una lingua che non esiste ancora.” Ed è proprio questo che rende quella tromba così significativa. Per Ornette, la tecnica era un mezzo, non un fine. Se qualcosa era rotto, allora forse suonava con più sincerità. Se una valvola mancava, forse apriva un’altra porta.
In un’intervista del 1972, Coleman dichiarò: “Per me, il jazz non è improvvisazione su accordi. È un modo di essere. Se ti senti libero, allora sei jazz. Anche se non sai nemmeno cos’è un accordo.” E quella tromba senza valvole è diventata il simbolo perfetto di questa filosofia: suonare con quello che hai, trasformare un limite in linguaggio, lasciare che siano gli strumenti a guidare, non l’ego del musicista.
Dopo The Empty Foxhole, Ornette tornò spesso a usare il sax come strumento principale. Ma quella parentesi, quell’esperimento, quella tromba… restano nella storia del jazz come un atto di ribellione e di fiducia.
Ribellione contro l’estetica accademica. Fiducia nel potere dell’istinto, dell’errore, del gesto puro.
Nel jazz, molti cercano di essere “giusti”. Ornette Coleman cercava solo di essere vivo.
Anche se per farlo doveva suonare una tromba a cui mancava l’anima meccanica. Perché in fondo, quella voce spezzata e stonata… era la sua.
Ed era vera.