nulla è più importante di ciò che sembra insignificante

C’ERA UNA VOLTA L’AMERICA

Quella che, per noi europei, non era solo una nazione, ma un orizzonte. Il sogno di un mondo nuovo, il mito della libertà, l’illusione che da quella parte dell’oceano ci fosse sempre qualcosa di più grande, di più audace, di più possibile.

L’America dei film in bianco e nero, del jazz che ci insegnava a respirare un’aria diversa, della luna conquistata, delle marce per i diritti civili, delle parole di Kennedy, delle lotte di Martin Luther King. L’America che, anche nei suoi errori, sembrava portare con sé il peso e la grandezza di un’idea universale: la democrazia.

Eppure, se allarghiamo lo sguardo, la storia ci ricorda che gli Stati Uniti sono nati anche dalle tragedie. La “scoperta” che cancellò interi popoli nativi, lo sfruttamento della schiavitù africana che alimentò per secoli le piantagioni del Sud, le guerre di conquista che trasformarono il continente in un impero. Dietro la retorica della libertà, c’è sempre stato il marchio della violenza. L’America dei Padri Fondatori è anche l’America del secondo emendamento, che sancisce come diritto naturale il possesso delle armi, legando indissolubilmente l’idea di libertà a quella di difesa armata.

Nonostante tutto, per decenni abbiamo voluto credere in quell’America come al luogo dove tutto era possibile. La patria del “nuovo mondo”, il faro della modernità, la promessa di una civiltà capace di reinventarsi. Era un mito comodo, forse ingenuo, ma necessario. Perché dopo le macerie della guerra, quell’immagine ci aiutava a immaginare un futuro diverso.

Oggi, però, quell’America sembra essersi trasformata. Non più il laboratorio della democrazia, ma il teatro del suo possibile collasso. Non più il sogno di libertà, ma il paradosso di un Paese che brandisce la libertà come arma e la piega a giustificazione di ogni abuso. Gli Stati Uniti sembrano vivere una crisi sistemica che tocca le fondamenta stesse della convivenza civile: disuguaglianze sociali insostenibili, conflitti razziali mai sopiti, un odio politico che sfocia in violenza. La verità non è più un bene comune, ma un’opinione contrapposta a un’altra opinione.

Lo abbiamo visto nelle immagini dell’assalto a Capitol Hill, simbolo di una democrazia minacciata dall’interno. Lo vediamo nelle sparatorie che con inquietante regolarità trasformano scuole e piazze in luoghi di morte. Lo sentiamo nella retorica urlata che oppone cittadini a cittadini, poveri a poveri, comunità a comunità.

Eppure, in Italia, c’è chi continua a guardare agli Stati Uniti come a un modello da importare. Una parte della politica italiana, con uno sguardo miope e interessato, sogna di “americanizzare” il nostro Paese: più armi per sentirci sicuri, più privatizzazioni come sinonimo di efficienza, più spettacolo al posto della politica, più retorica patriottarda. Ma davvero vogliamo seguire questa strada? Davvero vogliamo trasformare l’Italia in una copia sbiadita di un modello che oggi mostra crepe sempre più profonde?

L’Italia avrebbe potuto — e dovrebbe ancora — proporre al mondo un modello diverso.

Abbiamo una storia millenaria di civiltà, di pensiero, di arte. Siamo la terra di Dante e di Leonardo, di Machiavelli, di Verdi e di Fellini. Siamo il Paese che ha dato al mondo la nozione stessa di “umanesimo”: la centralità della persona, la dignità dell’altro, la bellezza come principio ordinatore. E siamo anche il Paese di figure civili e politiche come Pertini, che seppe incarnare la sobrietà del potere, la fermezza democratica, la vicinanza autentica al popolo. Un modello di leadership che nulla ha a che vedere con l’ostentazione muscolare che spesso ci viene proposta come imitazione del modello americano.

Eppure sembriamo dimenticarlo, preferendo inseguire modelli altrui che non ci appartengono.

C’era una volta l’America che ci faceva sognare.

Oggi c’è l’America che ci obbliga a riflettere.

E l’Italia, se vuole davvero un futuro degno, deve imparare a tenersi lontana da quelle logiche. Deve tornare a immaginare sé stessa non come copia di qualcun altro, ma come laboratorio originale di civiltà. Non riducendoci a essere periferia culturale e politica di un impero in crisi. Non possiamo limitarci a importare i suoi difetti peggiori: l’individualismo sfrenato, l’ossessione per la sicurezza, la spettacolarizzazione del potere, la riduzione di tutto a merce.

Non è nostalgia, è responsabilità. Non possiamo rimpiangere un’America che non c’è più senza interrogarci sul perché abbiamo smesso di immaginare un modello nostro. Perché abbiamo accettato che il nostro futuro si giochi in funzione di ciò che accade oltre l’Atlantico, invece che sulle nostre radici e sulla nostra capacità di visione.

Non si tratta di antiamericanismo sterile. Si tratta di lucidità. L’America resta un Paese vitale, pieno di contraddizioni, capace di invenzioni straordinarie e di voci che resistono. Ma non è più il faro che ci indica la strada. E chi in Italia sogna di importarne il sistema politico e culturale senza filtri, ignora che dietro la superficie brillante si nasconde un rischio di implosione.

Avremmo potuto essere noi, come Italia e come Europa, un faro alternativo. Un laboratorio di civiltà fondato sulla cultura, sulla giustizia sociale, sulla memoria delle nostre tragedie. E invece rischiamo di diventare comparse, inseguendo un mito che oggi non è più un sogno, ma un avvertimento.

C’era una volta l’America.

E oggi, forse, non resta che imparare dalla sua parabola. Non per rinnegarla, ma per capire che ogni mito, quando si svuota di sostanza, diventa caricatura. Che ogni democrazia, se non coltivata con cura, si piega su sé stessa. Che ogni libertà, se ridotta a privilegio, si trasforma in arma.

E allora, più che imitare, dovremmo interrogarci.

Che cosa significa per noi essere una nazione? Che cosa vogliamo esportare nel mondo? Bellezza o paura? Cultura o armi? Dialogo o sopraffazione?

L’Italia può ancora scegliere.

Può decidere di essere laboratorio di umanesimo o periferia di un impero al tramonto.

Può scegliere di inseguire i peggiori istinti di un’America malata o di ritrovare il coraggio di proporre una via diversa.

Perché c’era una volta l’America che ci faceva sognare. Ma se non ci svegliamo, rischiamo che, domani, qualcuno dica lo stesso di noi:

“C’era una volta l’Italia.”

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