Rileggere “Se questo è un uomo” oggi è come affacciarsi in uno specchio rotto: ogni frammento riflette un dolore che conosciamo fin troppo bene, ma che abbiamo imparato – o ci siamo abituati – a ignorare.
La lucidità di Levi, il suo racconto spoglio e necessario, non è solo la memoria di un tempo che fu. È, per chi sa ascoltare, un richiamo spietato al presente.
Siamo in un momento storico in cui l’orrore non si nasconde più tra le pagine ingiallite dei libri di storia. È lì, sotto gli occhi di tutti. A Gaza, in Ucraina, in Siria, in Sudan, nello Yemen, nei centri di detenzione libici finanziati dall’Europa, nei deserti dove si muore di sete, nei mari dove si affoga in silenzio.
Eppure, il silenzio più assordante non è quello dei morti, ma quello dei vivi.
Dei governanti che parlano di pace ma vendono armi. Dei popoli che si indignano per un algoritmo, ma non per una strage. Dei leader mondiali che tacciono – per convenienza, per complicità o per paura – davanti a crimini che gridano giustizia.
C’è una parola che Primo Levi ha scolpito nel nostro vocabolario morale: indifferenza.
L’indifferenza come anticamera del male. L’indifferenza come premessa del disumano.
E se c’è qualcosa che unisce il campo di concentramento di Auschwitz alla cronaca di oggi è proprio questa: l’accettazione passiva dell’inaccettabile.
La rassegnazione che diventa abitudine. Il distogliere lo sguardo che diventa stile di vita.
È vero: non viviamo più, almeno formalmente, sotto regimi totalitari. Ma viviamo in un sistema che sa essere altrettanto spietato, sebbene più subdolo.
Un sistema dove si bombardano ospedali in nome della sicurezza.
Dove i bambini vengono uccisi o rapiti e tutto ciò che resta è una dichiarazione di circostanza.
Dove l’orrore si misura in click, e ogni indignazione dura quanto un post su Instagram.
Levi scrisse per ricordare, ma soprattutto per ammonire. E ci chiese – con parole che oggi suonano ancora più urgenti – di meditare che “questo è stato”, affinché non accada di nuovo.
E invece accade.
Accade ogni giorno, a diverse latitudini, con altre divise, altri campi, altri nomi.
E noi?
Noi guardiamo, forse commentiamo, raramente agiamo.
Siamo diventati osservatori anestetizzati della sofferenza altrui.
Non è più solo una questione di geopolitica. È una questione di coscienza.
Di responsabilità. Di umanità.
Perché ciò che ci rende umani non è la nostra cultura, la nostra civiltà, o la nostra appartenenza religiosa o politica. È la capacità di riconoscere l’altro. Di soffrire con lui. Di non voltarsi.
Oggi più che mai, la domanda di Levi torna con forza: se questo è un uomo, noi lo siamo ancora?
Lo è chi costruisce muri?
Chi approva embarghi di medicinali?
Chi lascia annegare bambini in mare?
Chi usa il potere per proteggere interessi anziché vite?
C’è bisogno di una nuova resistenza.
Una resistenza etica, laica, nonviolenta, fondata sulla cura, sull’ascolto, sul coraggio.
Una resistenza che non ha bisogno di proclami, ma di gesti concreti: accogliere, denunciare, agire, educare.
Che sappia dire no all’ingiustizia, anche quando farlo costa caro.
Che rimetta al centro parole come compassione, giustizia, fraternità.
Che riconosca negli occhi di un bambino palestinese, ucraino, africano o italiano lo stesso diritto alla dignità.
Chi oggi tace di fronte all’orrore, ne diventa complice.
E chi sceglie di non vedere, si priva della propria umanità.
Non basta “non essere razzisti”, “non essere guerrafondai”, “non essere oppressori”.
Bisogna scegliere attivamente da che parte stare.
Perché la storia ci giudicherà, come ha sempre fatto.
E allora sì, forse arriverà un giorno in cui ci guarderemo indietro e ci vergogneremo.
Per non aver fatto abbastanza.
Per aver creduto che la pace fosse un fatto acquisito.
Per aver lasciato che il cinismo soffocasse la speranza.
Ma oggi possiamo ancora cambiare.
Possiamo ancora scegliere la parte giusta.
Possiamo ancora riconoscerci uomini e donne, non spettatori.
Possiamo ancora ricordare che ogni volta che un essere umano è trattato come una cosa, una merce, una minaccia, qualcosa in tutti noi si spezza.
Primo Levi ci ha lasciato un testamento civile, scritto non per i tribunali, ma per le coscienze.
Sta a noi raccoglierlo.
Sta a noi, oggi, renderlo di nuovo vivo.
Non con commemorazioni rituali.
Ma con scelte quotidiane, silenziose, radicali.
Non basta più dire “mai più”.
Bisogna fare, ogni giorno, in ogni gesto, in ogni parola, come se la dignità dell’altro dipendesse da noi.
Perché forse è davvero così.
SE QUESTO È ANCORA UN UOMO
Rileggere “Se questo è un uomo” oggi è come affacciarsi in uno specchio rotto: ogni frammento riflette un dolore che conosciamo fin troppo bene, ma che abbiamo imparato – o ci siamo abituati – a ignorare.
La lucidità di Levi, il suo racconto spoglio e necessario, non è solo la memoria di un tempo che fu. È, per chi sa ascoltare, un richiamo spietato al presente.
Siamo in un momento storico in cui l’orrore non si nasconde più tra le pagine ingiallite dei libri di storia. È lì, sotto gli occhi di tutti. A Gaza, in Ucraina, in Siria, in Sudan, nello Yemen, nei centri di detenzione libici finanziati dall’Europa, nei deserti dove si muore di sete, nei mari dove si affoga in silenzio.
Eppure, il silenzio più assordante non è quello dei morti, ma quello dei vivi.
Dei governanti che parlano di pace ma vendono armi. Dei popoli che si indignano per un algoritmo, ma non per una strage. Dei leader mondiali che tacciono – per convenienza, per complicità o per paura – davanti a crimini che gridano giustizia.
C’è una parola che Primo Levi ha scolpito nel nostro vocabolario morale: indifferenza.
L’indifferenza come anticamera del male. L’indifferenza come premessa del disumano.
E se c’è qualcosa che unisce il campo di concentramento di Auschwitz alla cronaca di oggi è proprio questa: l’accettazione passiva dell’inaccettabile.
La rassegnazione che diventa abitudine. Il distogliere lo sguardo che diventa stile di vita.
È vero: non viviamo più, almeno formalmente, sotto regimi totalitari. Ma viviamo in un sistema che sa essere altrettanto spietato, sebbene più subdolo.
Un sistema dove si bombardano ospedali in nome della sicurezza.
Dove i bambini vengono uccisi o rapiti e tutto ciò che resta è una dichiarazione di circostanza.
Dove l’orrore si misura in click, e ogni indignazione dura quanto un post su Instagram.
Levi scrisse per ricordare, ma soprattutto per ammonire. E ci chiese – con parole che oggi suonano ancora più urgenti – di meditare che “questo è stato”, affinché non accada di nuovo.
E invece accade.
Accade ogni giorno, a diverse latitudini, con altre divise, altri campi, altri nomi.
E noi?
Noi guardiamo, forse commentiamo, raramente agiamo.
Siamo diventati osservatori anestetizzati della sofferenza altrui.
Non è più solo una questione di geopolitica. È una questione di coscienza.
Di responsabilità. Di umanità.
Perché ciò che ci rende umani non è la nostra cultura, la nostra civiltà, o la nostra appartenenza religiosa o politica. È la capacità di riconoscere l’altro. Di soffrire con lui. Di non voltarsi.
Oggi più che mai, la domanda di Levi torna con forza: se questo è un uomo, noi lo siamo ancora?
Lo è chi costruisce muri?
Chi approva embarghi di medicinali?
Chi lascia annegare bambini in mare?
Chi usa il potere per proteggere interessi anziché vite?
C’è bisogno di una nuova resistenza.
Una resistenza etica, laica, nonviolenta, fondata sulla cura, sull’ascolto, sul coraggio.
Una resistenza che non ha bisogno di proclami, ma di gesti concreti: accogliere, denunciare, agire, educare.
Che sappia dire no all’ingiustizia, anche quando farlo costa caro.
Che rimetta al centro parole come compassione, giustizia, fraternità.
Che riconosca negli occhi di un bambino palestinese, ucraino, africano o italiano lo stesso diritto alla dignità.
Chi oggi tace di fronte all’orrore, ne diventa complice.
E chi sceglie di non vedere, si priva della propria umanità.
Non basta “non essere razzisti”, “non essere guerrafondai”, “non essere oppressori”.
Bisogna scegliere attivamente da che parte stare.
Perché la storia ci giudicherà, come ha sempre fatto.
E allora sì, forse arriverà un giorno in cui ci guarderemo indietro e ci vergogneremo.
Per non aver fatto abbastanza.
Per aver creduto che la pace fosse un fatto acquisito.
Per aver lasciato che il cinismo soffocasse la speranza.
Ma oggi possiamo ancora cambiare.
Possiamo ancora scegliere la parte giusta.
Possiamo ancora riconoscerci uomini e donne, non spettatori.
Possiamo ancora ricordare che ogni volta che un essere umano è trattato come una cosa, una merce, una minaccia, qualcosa in tutti noi si spezza.
Primo Levi ci ha lasciato un testamento civile, scritto non per i tribunali, ma per le coscienze.
Sta a noi raccoglierlo.
Sta a noi, oggi, renderlo di nuovo vivo.
Non con commemorazioni rituali.
Ma con scelte quotidiane, silenziose, radicali.
Non basta più dire “mai più”.
Bisogna fare, ogni giorno, in ogni gesto, in ogni parola, come se la dignità dell’altro dipendesse da noi.
Perché forse è davvero così.
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