nulla è più importante di ciò che sembra insignificante

PACE SMARRITA

Ogni giorno sembra allontanarci sempre di più da quella parola che da secoli chiamiamo pace.

Ogni giorno, con crescente rassegnazione, la leggiamo sui titoli dei giornali solo in forma negativa: “la pace è a rischio”, “un altro attacco alla pace”, “una pace impossibile”. Come se fosse diventata un’eccezione, una pausa tra due conflitti, e non più la base su cui edificare una civiltà. Come se il conflitto fosse la condizione naturale dell’uomo, e non la sua più tragica sconfitta.

In questi giorni si combatte in Israele e Palestina, in Ucraina e Russia, qualche giorno fa si è aperto un nuovo fronte tra Israele e Iran, e il mondo ha smesso anche di fingere sorpresa.

Ma questi sono solo i conflitti visibili, quelli che hanno ancora qualche spazio sui media. Poi ci sono le guerre “in secondo piano”, quelle che non fanno più notizia: Sudan, Yemen, Siria, Somalia, il Sahel, il Myanmar, la Repubblica Democratica del Congo, il Nagorno-Karabakh.

E infine ci sono le guerre non dichiarate: quelle contro i migranti, contro chi fugge, contro chi cerca solo la possibilità di esistere altrove. Guerre combattute con leggi, porti chiusi, barriere, silenzi.

E mentre la terra brucia, mentre i confini si alzano e si riempiono di fuoco, mentre le città vengono ridotte in macerie e le famiglie in statistiche, il segretario generale della NATO chiede di aumentare le spese per la difesa.

Come se l’unico modo per garantire la pace fosse prepararsi a una guerra più efficace.

Nel frattempo, dagli Stati Uniti arrivano dichiarazioni surreali su possibili interventi militari a Panama e perfino in Groenlandia, in una retorica da guerra fredda rivestita di nuovo cinismo.

Tutto tranne la pace.

Tutto si muove nella direzione della militarizzazione dei problemi, come se la pace fosse una variabile tattica e non un valore umano.

Ma la pace non si costruisce con le alleanze armate. Non si difende con la logica del deterrente. Non si ottiene rinunciando all’umanità in nome della sicurezza. La pace è un atto politico, sì. Ma è anche un gesto interiore, culturale, spirituale.

La pace è un pensiero. È una scelta. È un modo di abitare il mondo.

Vorrei che si tornasse a pensare alla bellezza. Non quella ornamentale, ma quella profonda. Quella che nasce dall’uomo quando non ha paura. Dalla sua creatività, dalla sua intelligenza, dalla sua capacità di convivere, di cercare armonia.

Pace è la bellezza di uno sguardo che comprende, di una parola che cura.

È l’arte, la musica, la poesia.

È la lentezza con cui la natura ci insegna a durare.

È la cultura che riconosce valore nella differenza.

È il rispetto reciproco, il riconoscimento pacifico delle cose che ci dividono, ma che potrebbero invece arricchirci.

In un’epoca che ha fatto della paura la sua lingua madre, e della divisione la sua strategia, il gesto della pace diventa rivoluzionario. Perché richiede coraggio. Richiede tempo. Richiede responsabilità.

E invece, tutto ci porta altrove. Ci porta alla semplificazione. All’indifferenza. All’abitudine alla violenza.

La storia ci insegna – se ancora vogliamo imparare – che molti dei conflitti nascono per volontà di chi ha interesse a dividerci. È il vecchio adagio del potere: divide et impera. Dividere popoli, culture, fedi, generazioni, frontiere, classi. Separare per governare. Isolare per controllare.

Ma la pace non nasce nella separazione: nasce nell’incontro. Nella coabitazione delle differenze. Nella convivenza delle contraddizioni.

Abbiamo tutto per vivere in pace: la bellezza della terra, la grandezza dell’intelletto, la possibilità di connetterci, di creare, di comprendere.

Eppure scegliamo ogni giorno la violenza.

Come se non ci fosse alternativa.

Come se la bellezza non bastasse più.

Ma forse – anzi, certamente – è l’unica cosa che ci può ancora salvare.

Perché là dove si costruisce bellezza, la guerra non attecchisce.

Là dove c’è rispetto, la violenza perde presa.

Là dove si coltiva empatia, l’odio è sterile.

La pace non è utopia, è responsabilità, è memoria, è progetto.

E oggi più che mai, è una necessità, non per salvarci dalla guerra ma per tornare a essere umani.

Forse è da questo che dobbiamo ripartire.

Dalla bellezza come forma di resistenza.

Dalla pace come linguaggio quotidiano.

Dal coraggio di non cedere all’indifferenza.

Perché ogni gesto di cura, ogni parola non ostile, ogni ascolto autentico,

è già una scelta di civiltà.

È già una piccola, ostinata forma di pace.

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