La suite eterna di John Coltrane
Per molti, A Love Supreme è un disco.
Per altri, un capolavoro.
Per chi c’era, era una preghiera.
La spiritualità di John Coltrane non si limitava a ciò che dichiarava nei libretti o nei titoli dei brani. Era un fatto musicale, fisico, quasi sacrale. Quando Coltrane suonava, stava cercando qualcosa. Ma non era successo, né bellezza, né virtuosismo.
Stava cercando il centro.
E durante le prove di A Love Supreme, quella ricerca divenne quasi mistica.
Erano i primi giorni di dicembre del 1964. Nello studio Van Gelder, nel New Jersey, c’erano John Coltrane al sax, McCoy Tyner al pianoforte, Jimmy Garrison al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria.
Quattro uomini, sì. Ma più che una band, erano una congregazione.
Coltrane aveva composto A Love Supreme nei mesi precedenti, in una fase di profonda trasformazione personale. Uscito dalle tenebre dell’alcol e dell’eroina, aveva trovato una forma di fede che non si ancorava a una religione specifica, ma che era totale, interiore, universale.
Aveva scritto la suite come un atto di gratitudine verso il divino, strutturandola in quattro movimenti: Acknowledgement, Resolution, Pursuance e Psalm. Un viaggio musicale e spirituale che non poteva essere trattato come semplice repertorio.
E infatti, le prove non furono semplici.
Coltrane arrivò in studio in silenzio, con il manoscritto in tasca. Sapeva esattamente cosa voleva… eppure non sapeva ancora come sarebbe arrivato lì.
Prese il sax, lo accordò, e cominciò a suonare il tema di Acknowledgement.
Solo quello.
Ancora e ancora.
Per minuti. Poi mezz’ora. Poi un’ora.
McCoy Tyner suonava con lui, accompagnava, cercava di seguirlo, ma a un certo punto si fermò, esausto.
Il tema si ripeteva, mutava leggermente, tornava identico, poi si dilatava.
Era come se Coltrane stesse inseguendo qualcosa oltre le note.
McCoy lo guardò.
Coltrane, con un sorriso calmo e misterioso, disse:
“Quando trovo il centro, tutto il resto viene da sé. Ma il centro… è lontano.”
Elvin Jones, testimone di quel momento, raccontò anni dopo che Coltrane non stava cercando di “fare buona musica”. Stava trovando una frequenza interna, un punto in cui suono e spirito coincidessero.
“Quella suite,” disse Elvin, “non era un brano. Era una preghiera vera. E non fu mai più suonata nello stesso modo.”
E in effetti, A Love Supreme fu eseguita dal vivo una sola volta documentata: il 26 luglio 1965, all’Antibes Jazz Festival, in Francia. Dopo di allora, non tornò più nel repertorio standard. Come se Coltrane avesse raggiunto qualcosa di troppo sacro per essere replicato.
Durante quelle registrazioni, lo studio sembrava un tempio. Garrison suonava linee profonde come un canto liturgico. Tyner tesseva tappeti armonici che sembravano galleggiare. Elvin Jones costruiva e distruggeva ritmo come un rituale dionisiaco.
E Coltrane…
Coltrane invocava.
La sua voce – perché è di voce che si tratta, più che di sax – si faceva strumento per qualcosa di più grande. Nell’ultima parte della suite, Psalm, non improvvisa: recita, nota per nota, un testo spirituale che aveva scritto, ma suonandolo. Come se leggessimo una poesia con il fiato del sax.
Molti hanno provato a interpretare quel momento. Per alcuni era un punto d’arrivo. Per altri, un nuovo inizio.
Per Coltrane, era semplicemente un atto di fede.
Diceva: “Desidero portare le persone più vicine a Dio attraverso la mia musica. Questo è il mio obiettivo.”
E per farlo, aveva bisogno di quella ripetizione ossessiva, di quella ricerca quasi zen del “centro”.
Quel centro di cui parlava in studio, mentre ripeteva un tema apparentemente semplice, ma in realtà infinito.
C’è qualcosa di commovente in questa ostinazione.
In un’epoca in cui molti jazzisti cercavano la perfezione tecnica o il successo commerciale, Coltrane inseguiva la purezza spirituale, sapendo che forse non l’avrebbe mai raggiunta del tutto.
Ma quello era il viaggio. E il viaggio, nel jazz, è sempre la cosa più importante.
Quando le registrazioni terminarono, nessuno parlò per qualche minuto. I nastri erano pieni. Le mani stanche. Le emozioni altissime. Elvin, Tyner e Garrison avevano suonato come in trance.
Coltrane abbassò il sax, chiuse gli occhi.
Poi disse solo: “Grazie.”
Non era un ringraziamento ai musicisti. Era un ringraziamento a qualcosa di più grande.
A Love Supreme uscì nel 1965. Fu accolto con entusiasmo, rispetto, stupore. Divenne un simbolo. Un riferimento.
Ma per chi lo conosce davvero, non è un disco.
È una messa laica.
Una scalata.
Un atto di fede inciso su nastro.
E quel giorno, in studio, tutto cominciò da lì: da un tema semplice, suonato per ore, fino a quando il suono stesso non trovò il suo centro.