Antonio Abate, il santo anacoreta (detto così perché pare che abbia vissuto gran parte dei suoi 106 anni di vita da eremita), nacque nel 251 ed è considerato il fondatore del monachesimo nonché il primo degli abati.
Quasi tutto ciò che si sa della sua vita è contenuto in un’opera sicuramente agiografica che alcune fonti attribuiscono ad Atanasio, vescovo di Alessandria e suo contemporaneo col quale pare abbia condiviso un certo percorso spirituale.
E da questa fonte si apprende che all’età di vent’anni il Santo scelse di diventare povero e, donati tutti i suoi beni, si ritirò nel deserto a meditare.
La sua vita, quasi interamente dedicata alla purificazione, ha ispirato diversi pittori che lo hanno raffigurato mettendo in risalto alcune leggende che hanno accompagnato la sua fama. Diego Valázquez, per esempio, nel 1630 circa, dipinse il quadro “Sant’Antonio Abate e San Paolo” in cui sono raffigurati i due Santi i quali, secondo il racconto che ne fa San Girolamo, si incontrarono nel deserto della Tebaide; molto bello anche il quadro che alla fine dell’Ottocento realizzò Paul Cézanne che illustra il Santo alle prese con le tentazioni del demonio.
E proprio al periodo in cui dovette difendersi dalle tentazioni del demonio, si fa risalire il suo legame con i falò, e quindi col fuoco: secondo la leggenda, per contrastare il Maligno, egli scendeva fino all’inferno a contendergli le anime.
Secondo altre indicazioni, questo suo legame nacque invece da quando iniziò la venerazione delle sue reliquie e, per ottenere la guarigione, alcuni ammalati di patologie della pelle (tipo herpes zoster – detto appunto anche “Fuoco di Sant’Antonio”) strofinavano sulla parte infetta le reliquie del Santo, immediatamente si leniva il bruciore (simile a quello delle ustioni) e anche il dolore.
Ma Antonio Abate è anche protettore degli animali domestici e da cortile e infatti, l’iconografia classica lo ritrae con un maiale accanto; in effetti la raffigurazione deriva dal fatto che gli abati allevavano i maiali e ne usavano il grasso per ungere le parti doloranti di coloro che erano afflitti dalla malattia cutanea.
Quella di Sant’Antonio Abate è una delle feste più sentite dalla cultura popolare. Sono molte le località in cui si tramandano da secoli alcune tradizioni legate alla figura del Santo.
La più evidente manifestazione dei festeggiamenti è sicuramente il falò che si accende in suo onore.
Naturalmente è soprattutto nelle comunità meno popolose che si riesce ancora a mantenere viva la tradizione. Infatti, proprio in alcuni piccoli centri, i falò sono solo il momento culminante di una serie di festeggiamenti; famose per l’accensione dei falò sono le località di Roccapiemonte in provincia di Salerno, Capua in provincia di Caserta, Sassinoro in provincia di Benevento e Nusco in provincia di Avellino.
A Napoli, per ovvie ragioni, qualche falò si accende soprattutto lungo via Sant’Antonio Abate dove, ad una delle due estremità, sorge proprio la Chiesa dedicata al Santo.
Fino alla fine degli anni ’50, era abitudine diffusa portare i propri animali a ricevere la benedizione. I trasporti, particolarmente quello delle merci, avvenivano quasi esclusivamente a mezzo di carretti trainati da cavalli e i loro proprietari arrivavano nello slargo antistante la Chiesa attendendo che uscisse il sacerdote per la benedizione, e per l’occasione gli animali venivano bardati a festa.
Lungo tutta la giornata, banchi di dolciumi erano presi d’assalto da ragazzini a cui non pareva vero di poter mangiare qualcosa “per sfizio” in un giorno che non fosse domenica!
Era l’epoca in cui sui generi alimentari non si segnavano le scadenze, le confezioni non erano sottovuoto, nessun accorgimento proteggeva i prodotti dagli agenti esterni.
Tra tutti i prodotti che venivano messi in esposizione, c’era un articolo che riscuoteva sempre un grandissimo successo: la collana di taralli. La collana di taralli veniva realizzata in maniera molto semplice: un filo di normalissimo spago si infilava in un determinato numero di taralli, poi lo si annodava, si appendeva al collo e nel corso della serata i taralli rappresentavano lo “snack” per la festa di quei tempi, venivano consumati lentamente mentre si passeggiava e la sete che derivava dal loro consumo veniva soddisfatta presso le bancarelle di venditori occasionali. Si poteva comprare anche un solo bicchiere d’acqua, superfluo aggiungere che i bicchieri erano di vetro e venivano “puliti” con l’immersione in una bacinella piena d’acqua (che non veniva mai cambiata) e per maggiore garanzia del cliente, il bordo del bicchiere veniva strofinato con un pezzetto di limone che, giacendo anch’esso per ore nella bacinella, non conservava alcuna proprietà “disinfettante”! Eppure, la serata trascorreva in allegria, con un’attesa che diventava sempre più spasmodica in prossimità dell’accensione dei falò.
I ragazzi già dal pomeriggio cominciavano ad accatastare la legna ed era tutta un’eccitazione che animava la sfida su chi avesse realizzato il falò più bello.
’A lampa ’e Sant’Antuono, così si chiamava nel gergo del quartiere, cominciava ad ardere appena scendeva la sera e segnava l’inizio dell’ultima parte dei festeggiamenti. Qualcuno, dopo alcuni minuti cominciava a rincasare, ma molti attendevano che la legna bruciasse completamente.
A quel punto le donne scendevano in strada con i loro bracieri vuoti e li riempivano di brace: in fondo risparmiando per una sera di usare la carbonella, ci si ripagava di quello che si era speso in collane di taralli.
Oggi la festa si fa ancora, ma è ovvio che non ci sono cavalli da benedire, non ci sono bracieri da riempire, ci si disseta con bibite in lattina; l’unica cosa che resiste sono i taralli che, nella completa inosservanza di qualunque norma igienica, si continuano a vendere sfusi o già legati con il filo di spago (che però è rigorosamente di plastica…).
I pochissimi falò si spengono senza che nessuno ne rivendichi la brace e spesso su di essi vengono lanciati fuochi d’artificio di pessima qualità.
Tutto è segno del tempo che passa.